Seconda vita si basa sulla manipolazione dell’elemento naturale per eccellenza, la resina. L’artista ne utilizza un tipo particolare – la colofonia gialla, trasparente, lucida per creare spine da inserire su residui vegetali: pezzi di corteccia, rami. La resina è per la pianta ciò che per l’uomo sono le piastrine, è fonte di rigenerazione e di longevità: più la pianta è ricca di resina, più la pianta è longeva.
La pianta produce secrezioni di resina per proteggere un taglio nella corteccia dentro il quale potrebbero depositarsi insetti, batteri, corpi estranei. Questa sostanza naturale come la madreperla nell’ostrica – è la traccia fisica di una ferita.
L’artista si è chiesto in che modo l’uomo possa inserirsi nel processo naturale, nel ciclo vita-morte della pianta. Lavorando la colofonia, ha creato spine dorate da attaccare su parti residuali della pianta per regalarle longevità, per partecipare a quel suo processo di cura.
Le secrezioni di resina sono però amorfe, senza forma, casuali; quelle in Seconda vita invece riportano la traccia della mano dell’artista. Ciò perché l’artista, l’homo faber, non può inserirsi nel ciclo naturale senza essere artificioso. L’aggettivo corretto è artificioso, non artificiale; proprio perché l’obiettivo della ricerca dell’artista è quello di avvicinarsi alla natura, non di contrapporsi ad essa. Ma l’uomo non è Prometeo, non può plasmare una vita con il fango e il fuoco, così come non può risanare la vita di una pianta: nel suo simulare la magica cura della resina sulla pianta, l’artificio rimarrà sempre palese.